LA CERCHIA DEGLI SCRITTORI TIMIDI

Oggi la conoscete così la scena letteraria, attraversata da donnine e omini ingobbiti, che tenendo il più possibile il viso in ombra spremono ogni sentimento finché non resti più che l’afasia, che tremando o irrigidendo gli arti e il collo a stento fiatano durante gli incontri pubblici, cosicché agli amanti della letteratura non resti che contemplarli a distanza come reliquie sante e inerti. Vi parrà strano, ma una volta era diverso. Una volta, quanto tempo fa? Saranno due, tre generazioni, il consesso della letteratura era occupato da personalita giganteggianti. Ci credereste? Gente energica, capace di affabulare le platee per ore e ore, per settimane intere, le cui doti importanti erano prestanza fisica, superbia e sicura ossessione per se stesse. Si impegnavano in tour dalla durata di almeno un paio d’anni con baldanza, senza mostrare il minimo segno di cedimento, chi ansava appena un poco, chi invecchiava, chi si ammalava, scivolava giù dal palco e dalle menti. E lo spettacolo pirotecnico andava avanti, scrittori e scrittrici trascinavano su e giù per la penisola ammiratori adoranti, donne soprattutto, in attesa di quell’incanto: parole dolci, coccolanti, ardenti, umiliate ma pronte al riscatto, ironiche, magniloquenti, liberanti, accompagnate da gesti ampi e fermi. Per scrivere non gli rimaneva troppo tempo, avevano imparato a lavorare in fretta, era d’altra parte l’opera loro una base, un copione per recitare a soggetto. Lo buttavano giù nei ritagli, nelle pause, tornando in albergo, dalle quattro alle cinque della notte. Certo, c’era fra loro qualche cavallo di razza, qualche potenza naturale che malgrado le condizioni proibitive riusciva a mettere su pagina incandescenza, letteratura vera e piena. Ma queste meraviglie erano una minoranza infima e nessuno a parte noi sapeva riconoscerle. Tutti gli altri giganteggiavano balbettii, carezze appiccicose, sciocchezze. Ognuno di loro poi, per economia di tempo e di sforzo, era perfettamente concentrato su se stesso, sul corpo, sul gorgheggio, a volte, sul dolce suono di una frase. Mai uno scrittore, so che è difficile persino da immaginare, avrebbe prestato attenzione profonda all’opera di un altro, non c’era tempo ed era un po’ noioso, se si esaltavano a vicenda potevi esser certo che ci fosse un guadagno. Ma splendevano, luci dal basso e occhi roteanti, petti larghi e pigli ardenti, a modo loro, una bellezza.. Così, stretta fra questi titani e gigantesse, l’arte languiva. Era, è vero, un genere di personalità adatto al suo tempo, ideale, per certi versi interessante, e avremmo potuto levare le spalle, sospirare e abbandonare la letteratura al suo destino. Ma noi crediamo nel potere dell’azione. Se ci avessero conosciuto a quel tempo ci avrebbero tacciato di illuminismo o, con più precisione, di dispotismo illuminato. Ma nessuno all’epoca ci conosceva e anche adesso pochi sospettano della nostra esistenza e anche tra chi ha sentito voci su di noi i più ci considerano leggende consolanti, fole. Chi ci nomina ci chiama sottovoce, i signori, o gli dei, della letteratura, ma siamo esseri umani come tutti, affezionati a questa disciplina, impegnati qua e là in una collana, nascosti nelle seconde file di un ufficio stampa o semplicemente studiosi. Esasperato dalla piega che aveva preso la società letteraria al tempo, l’esile manipolo che eravamo decise di dare spazio ai dimenticati, fra i quali si trovavano degni, talvolta immensi. scrittori e scrittrici, e i dimenticati erano i timidi.

 

Ognuno di loro fu colpito quando ricevette l’invito, quasi commosso; non se lo aspettavano. A tutta prima con il cartoncino bigio in mano molti tremarono come foglie sotto il libeccio, dissero a se stessi: no, no, non vado e si nascosero nell’armadio. Altri si irrigidirono e rimasero lì a scongelarsi per ore. Ma alla fine tutti avvertirono come una glassa calda e profumata che internamente li scioglieva, solluccherarono con le labbruzze il loro momento finalmente giunto. All’incontro, si videro espressioni incupirsi, mancavano i grandi scrittori del momento, e fra i poveretti che avevano sperato di essere stati cooptati finalmente nell’empireo dei forti ci fu persino qualcuno tentato di prendere la porta senza acrimonia esibita e andare a casa. Ma uno sguardo alla platea eccitò le menti. Ma chi era, seduta sulla sediolina, quella vecchietta, ma forse? Non era quell’autrice di cui si disse così bene tanti anni addietro e che poi fu dimenticata? e quell’altro, quello che non si arrischia neanche di sedersi e si guarda piegando gli occhi sulle punte delle scarpe, non è quello scrittore straordinario che tutti conosciamo e di cui nessuno parla? E quella giovane a cui cadono i fogli dalle mani? i pochi che hanno avuto il privilegio di leggerla ne sono rimasti del tutto conquistati. A poco a poco la nostra selezione incuriosì. Uno di noi estrasse una lista e invitò il primo scrittore timido al centro della sala, ma quello rifiutò, storse la faccia, No, leggo dal posto. Ma lesse, incerspicando, tornando indietro, lesse; gli si fecero rosse le guance dal piacere, e fu commosso, quando pian piano, uno alla volta i presenti presero la parola e commentarono con la delicatezza che avrebbero voluto per se stessi. E fu tutto un rimpallo di incoraggiamenti, Aspettavo da anni il momento di ascoltarti, Bella voce; una punteggiatura da rendere verdi dall’invidia; qualcuno azzardò anche una critica benevola, su una metafora fuori fuoco, una descrizione imprecisa, e la critica venne accolta persino con gioia perché era un segno di attenzione da anni anelato. A volte le operette che ci trovammo ad ascoltare erano degne del nostro sforzo ma non sempre. Gli scrittori timidi però manifestavano per empatia un grande e omogeneo apprezzamento, accennando appena una osservazione garbata pronunciata con premura e con dolcezza. A poco a poco, mese dopo mese, l’affetto e l’ammirazione che maturarono l’uno verso l’altra montarono fino a diventare sostanza solida pronta per costruire il proprio posto nel mondo. Nessuno di loro sarebbe stato in grado di esibirsi, di farsi bello, di osannare se stesso, ma ora si trattava di srotolare tappeti rossi per il proprio fratello, per la propria sorella di destino: l’uno con l’altra, sulle piattaforme sociali e sui giornali, cominciarono a scambiarsi messaggi pubblici grati e commossi e a poi a schermirsi oppressi dall’imbarazzo. E l’uno esaltava le capacità formali della bella gobbetta, e l’altra si beava della presa sul reale del magrissimo pelato, e tutti e due gioivano dell’energia espressiva e del senso del tempo del giovanissimo obeso. A ogni dichiarazione di stima, l’oggetto, il pelato, l’obeso, la gobbetta, sparivano per giorni dalla vista, sopraffatti dall’imbarazzo. Ma intanto il loro nome circolava e circolava, e il pubblico rimaneva incantato, spiazzato, dall’apparire di questa cosa che suonava nuova, oro zecchino, sconcertante e vera a paragone con la vanagloria. Così, violentemente attratta dal piffero recente, la gente cominciò a inseguire quei nomi cristallini, a cercarli sui motori di ricerca, a comprare riviste che ne stampassero i frammenti, i racconti, i versi. I vecchi idoli tracotanti uscirono di scena stupefatti, le loro voci roboanti disturbavano ora come inquinamento acustico, la loro ossessione di se stessi annoiava ormai come annoia il tempo che fu, finirono a prendere polvere ognuno dietro la porta di casa sua, il telefono muto e disperato.

 

Così la scena letteraria diventò quella consueta, quella che conoscete così bene, dominata da creature nascoste, storte a vedersi, difficili da tirare fuori dal guscio, e dalle loro opere, belle o brutte che fossero, perché nessuno dei timidi si sarebbe sognato di stilare un canone con il rischio di esserne estromesso, godendo ciascuno di loro nell’esaltare la più nascosta, titubante, incerta delle creature senza badare affatto alla dignità della sua opera. Così il pubblico si educò al suo gusto del tempo attuale: solo chi deve essere stanato vale.

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