Scaracchiavano al secondo e ultimo piano, un raspare di suole, tafferugli di
piscia di cane sullo zerbino e recriminazioni di tovaglie sgrullate a
sproposito. Cose che capitano, sfiatò Limetta, incassato com’era nella
poltrona. Briciole, disse ancora, prima che il Colonnello tuonasse di
cavatappi, una forchetta, un tagliaunghie, un paio di occhiali da vista e una
volta perfino il gatto. Nel fondo non scendeva nessuno. Le cose che
cadevano erano perdute per sempre. Con il Colonnello non si scherzava,
sopra l’armadio teneva lo schioppo, un tintinnare di cartucce ogni volta che
apriva l’anta per rimirarsi per intero e per lungo.
Un lombrico si era avvinghiato alla spirale del cavatappi, l’edera di stelle
filanti saliva lungo la rete incrostata di viticchi, di cavallette e grilli solo il
frinire e, tra le ortiche, le lumache e le chiocciole, arrossivano certi
papaveri, dove le formiche avevano costruito un fortino all’ombra rigata di
rebbi di forchetta. Libero si era affacciato e aveva guardato in basso, oltre la
ringhiera, mentre dentro continuavano a sbreccare parole, anche se Limetta
aveva già tirato fuori il fiasco, e il Colonnello si era lasciato andare pesante
su una seggiola, i gomiti sbattuti sul tavolino. Là sotto sembrava non esserci
più spazio e nemmeno tempo, un mondo nuovo, colorato e luminescente di
plastica, gomma, vetro e acciaio, piastrelle e inerti. C’erano invece esserini
viventi, tra l’erba alta e i gigli selvatici, tra un ratto e un giaggiolo che
spuntava in un angolo, nella ciotola muschiata del pastore tedesco dove
sbocciavano girini e altre forme di vita. Libero lasciò cadere la pistola di
plastica convinto che con la stagione a venire sarebbe diventata un museo
per le Scimmie di mare.
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