A collorotto, continuava, ma con saggezza d’ascia, maestro d’inverni inauditi, raccolti in un libro emarginato, lanciato nell’esilio, scucito da una lastra d’oceano un sabato sera o in una già nascente domenica. Arbitrario e isolato, coniugava verbi senza corredo alcuno e insultava i passanti: non governare l’uomo, subito annuiva alle sue parole e ricominciava a insultare. Nel disprezzo aveva l’isolamento e la vita. Ma era una fatica, una pur stringente vocazione senza guardia: il kamae, recitava osservando la stele d’oceano, è ovunque nella mente, libero in un corpo senza centro e circonferenza. Avrebbe voluto conoscere Diogene e insultare anche lui. A collorotto, ma con saggezza d’ascia, isolava parole e costruiva vascelli che non avrebbero incontrato il mare: pagaiava l’aria con la stessa intensità delle intemperie, maestro d’inverni non per gioco, ma per essenza, estrazione. Da certe prospettive gli oggetti diventavano laghi, prima di farsi oceani, inverni di magica ampiezza: il fragore dell’ala, la turbolenza del mattino, lo sventolio di senso in una probabile lacuna: occorreva chiedersi come, chiedersi perché. I microchip, le schede di memoria, parchi eolici i transistor dismessi; tanto era grande il mondo, tanto era grande la mente, tanto era esteso l’universo, tanto era imponente la connessione fra le cose. La vita, più della poesia, è un buon posto dove sparire.
N.
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