Il suono ovattato della lavastoviglie è una nenia che mi concilia il sonno; lo stesso che emetteva il petto di mia madre quando, da bambina, mi ci appisolavo mentre parlava. Capita, quando ne ho bisogno, di avviare la lavastoviglie vuota, anche se vuota produce un suono diverso, meno baritonale. La lavastoviglie suona, lei si presenta e si accomoda sul divano rosso a sorseggiare una tazza di tè alla vaniglia. È una donna piccola dal corpo spigoloso, poi attacca “Murder in the red barn”, e si fa goccia che scivola sul pavimento. Non so da dove venga, ma sa raccontarmi storie senza parlare con la potenza primitiva della voce di Tom. E’ fatta della stessa materia della bambina che amora tutti, dell’uomo venuto dal mare. La prima volta che è apparsa me ne stavo sdraiata sul divano quando, fasciata da una sottana rosa, si è materializzata ancheggiando a piedi nudi al ritmo di “Jesus gonna be here” e senza perdere l’andatura dei suoi fianchi, ha spostato una ciocca di capelli che le era scivolata sul viso e ha detto, hai ascoltato Tom? Le sue domande sono risposte senza parole in cui le dico grazie per ritornare con la stessa sottana, per i piedi nudi sul mio petto, per la leggerezza del suo silenzio che danza al ritmo della musica che le suona dentro, per la serenità che mi infonde, per il suo mondo visionario che condivide col mio. Non so ancora chi sia, ma so di esserle legata da un legame indissolubile.
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