La musica estraeva il suo collo di cigno
Da un tale ensemble di gioie orchestrali.
Mozart modulava un fischio di scena –
E fosse pur un suo servo… – in chi componeva
Per lui quel Requiem: per il resto un epicureo
Di stanza a Praga o a Vienna, città i cui cavalli,
Massicci – da birrai –, andavano come al granito
O al porfido dei patiboli smacchiati con liscivia
Dal rene di tre lavandaie
Al passo carraio dell’erica
In thunder, in lightning or rain
Nel ranno di Valpurga, nel fornello scozzese:
I vestiboli delle loro vulve
Nello strass di Gonerill e Regan,
Non di Cordelia, lo compiacevano
Come piacque al gel di lucertola
D’acquetarsi nel cinabrese
Del drago di San Giorgio ristabilito in ramarro.
Il pittore catturava di paesaggi e visi
L’essenza con spezie tra cui i pesticidi
O i gigli infranti e lasciati smurare
Nel villo di una linea, tra le urne funerarie
Dell’inverecondia ottenuta con ciò che è
Di Ecce Homo.
La pittura estraeva il suo collo di pietra
Da un tale ensemble di tinte mortali.
Picasso un viso disegnare sapeva
Con due linee appena, una di cui la mortale
E l’altra nella sizigia smisurata del coma.
Per la semplicità
Che immortali ginnastiche!
La poesia bruciava di virtù monastica.
Chissà quante paia di sandali Dante avrà consumato
Sui sentieri da capre degli Appennini.
Manceps non gli bastava
Esser sutrinæ!