Fin da quando Falco Anselmi raggiunse la Somalia italiana all’inizio degli anni ’50 per studiare le locali tribù dei Punti, la sua curiosità venne stuzzicata da uno strano oggetto. Precedentemente e per tutto il periodo coloniale del Paese i Punti erano sempre riusciti a mantenersi in un discreto isolamento, vuoi per l’ostinato nomadismo, l’assenza di risorse economiche di qualsiasi tipo o la distribuzione maculare dei pochissimi individui in una zona vastissima e tutto sommato inospitale. La sola testimonianza antica che può forse essere collegata allo strumento che l’Anselmi battezza medamolabio è in un frammento di Polibio che, in riferimento a dei cinocefali di pelle scurissima apparsi in un certo momento all’estremità orientale del regno di Massinissa, dice che questi parevano orientarsi con un nescio quid di fascine intorcolate con l’ausilio del quale scrutavano il cielo notturno. Curioso che poi, durante il giorno, portassero invece l’oggetto in ostensione quasi pregandolo e inondandolo d’incensi. Anselmi, nei suoi tre anni di osservazione, riporta gli usi accennati dallo storico greco e ne scopre molti altri: il medamolabio sembra in qualche modo essenziale nella lettura delle correnti marine, è efficacissimo strumento di rabdomanzia, tiene a bada gli spiriti maligni. Non solo, quando una giovinetta dà segni di maturazione, un piccolo medamolabio viene posto sotto il suo letto per i primi sette cicli mestruali. Con cadenza trimestrale, i Punti si ritrovano poi in luoghi segretissimi e danzano invasati intorno al medamolabio snocciolando benedizioni e cadendo in strambi deliri mistici. Da notare il fatto che questo bizzarro elemento di cultura materiale, che gli indigeni chiamano pewetti’choba, all’epoca dell’Anselmi non fosse più costruito in legno, ma con residui bellici di metallo legati con corde di banano. Interrogati in merito, i Punti rispondono con elaborati e confusissimi giri di parole che non dicono nulla, perdendosi nella descrizione dei tabù accordati al medamolabio, ricette di cucina, nozioni di astrologia, o di usi ancor più fantasiosi e mai comprovati del quid. Incuriosito dagli appunti dell’Anselmi, negli anni Novanta, l’etnologo francese Pierre Bourré ha visitato i pochi Punti rimasti, raccogliendo anch’egli un’impressionante mole di testimonianze relative all’uso del pewetti’choba – ora plastico e modellato in forma sferica dagli sciamani della tribù – come mestolo per la polenta, pietra angolare nella costruzione di templi, pallone da calcio, cappello e, per gli indigeni venuti in contatto con i missionari, effige di Gesù Bambino. Supportata da centinaia di ore di interviste e migliaia di prove fotografiche, l’ipotesi di Bourré è che il medamolabio serva confondere chi li osserva e che in assenza di stranieri i Punti non se ne facciano nulla.
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