(L’OCCHIAIA. 70.)

Ancoro i piedi nel marmo della soglia e mi sporgo verso l’esterno. Ignorato dalla gravità mi abbandono agli abbracci del vuoto. Scricchiola il collo mentre giro la testa e con sguardi già allenati agli ingannevoli velami del quotidiano scandaglio la via fino a che non svolta per allontanarsi senza ripensamenti. Faccio lo stesso lungo il troncone opposto ma anche qui per i miei occhi oggi non c’è nulla che valga la pena d’essere annotato. Stessi cantucci, stesse latebre, stessi inciampi: tutto appare sputato uguale a ieri, all’altro ieri… persino le rondini sfrecciano sempre alla stessa velocità tagliuzzando metodicamente un cielo che scivola via indifferente ad un palmo scarso dai tetti di queste quattro case senza colore, cadenti e ormai per lo più disabitate. E sotto le maschere d’occasione dei passanti che ogni giorno, ad ore ben precise, mi incrociano senza mai sfiorarmi, indovino senza più meravigliarmi, smorfie identiche a quelle che già galleggiano sulle facce dei loro padri, dei loro nonni… una qualche minima differenza, per quanto mi sforzi, non riesco più a percepirla come tale! Un piccolo mondo bloccato nella mota dell’assodata, rassicurante ripetitività nel quale da anni annaspo benché continui a chiedermi cosa, cosa ancora mi lega a questo luogo…

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