LA GIUSTA COLPA

Mazzola era in piedi, in silenzio, come tutti gli altri. Passò una mano sulla nuca sudata e pensò che i compagni dietro lo stessero fissando. Lui non poteva guardare nessuno perché stava al primo banco. Pensò che i suoi compagni gli stessero fissando il porro che aveva sulla nuca, anche se lui lo scordava sempre perché non lo vedeva mai. Solo quando sudava e ci passava la mano lo ricordava, o quando si grattava e per sbaglio lo graffiava facendosi un po’ male.

Mazzola spostò il peso da un piede all’altro, cominciò a sentirsi stanco: «Stai in piedi così allunghi», gli diceva sempre sua madre, «solo i vecchi stanno seduti. Tu sei vecchio?». Guardò l’orologio appeso sopra la lavagna: «Chi è stato?», disse il professore, questa volta con un tono di voce più alto di prima. «Facciamo così, se non mi dite subito chi è stato, vi faccio stare in piedi per tutta l’ora. Siete tutti nei guai, vi sto avvisando. Una bella sospensione di gruppo, va bene così?». Quando finì di parlare, la classe tornò a essere silenziosa e calma come prima, anzi come se fosse meglio di un giorno normale. Mazzola guardò i suoi compagni con la coda dell’occhio nelle file a destra e a sinistra: Ma perché non si sbrigano? Cosa ci vuole a dire: sono stato io. E basta. Prima fanno le cose e poi si nascondono, tanto per saltare l’ultima ora di lezione, sicuro. Ma perché non si stavano con le mani belle strette fra le cosce anziché muoverle per fare danno?.

 

Durante la ricreazione era sparito il registro di classe. Mazzola non se ne accorse finché il professore non si sedette e cominciò a guardarsi attorno cercando qualcosa: aprì il cassetto della cattedra, lo richiuse scuotendo la testa: «Dov’è il registro?». Poi si alzò e cercò dappertutto: dentro il cestino, dentro l’armadio dove si tenevano i cartelloni.  Fece aprire gli zaini, li fece richiudere, tornò alla cattedra e disse: «Chi è stato?» per la prima volta. Poi aveva cominciato a parlare facendo lunghe pause, a dire di restare in piedi finché non avessero finito di scherzare, di quanto fosse grave la situazione, che tutti loro si sentivano furbi, certo, ma che in realtà questo sarebbe stato peggio di fare lezione, che si stavano rovinando con le loro stesse mani. Mentre parlava, aveva fissato spesso Mazzola ma lui ci era abituato, perché rispetto agli altri era il più vicino alla cattedra, veniva spontaneo guardarlo, non si sentiva in colpa.

 

Da quando aveva cominciato le medie, Mazzola era sempre stato al primo banco. Non poteva distrarsi, doveva stare fermo, rigido, a fissare i professori, e i professori così fissavano lui. Spesso quando guardava dritto davanti a sé, immaginava i suoi compagni dietro che potevano sbadigliare, scherzare: Maledetti, maledetti!.

Non aveva manco nessuno con cui parlare; c’era lui solo nel banchetto della prima fila, e tutta la classe dietro. Così stava attento, prendeva appunti, partecipava alle spiegazioni alzando la mano e facendo domande: Se non sto attivo, mi addormento qui sul banco, e la giornata non mi passa più. Per questo era diventato il primo della classe: Che cretinata. Che ci vuole a essere il più bravo stando seduto da solo al primo banco?. Così, storceva la bocca quando i professori lo lodavano, gli veniva da sputare per terra e ruttargli in faccia: Grazie, sì. Grazie, e che ci vuole? Tutti potrebbero essere bravi al posto mio, basta che si siedono qua. Venite al posto mio, maledetti. Sarebbe stato davvero il primo della classe solo se si fosse potuto sedere nei banchi dell’ultima fila. Da lì, tutto sarebbe stato meritato: avrebbe dovuto slogarsi il collo per guardare la lavagna, avrebbe dovuto sbracciarsi per alzare la mano e intervenire, avrebbe dovuto metterci il triplo dell’attenzione per poter riuscire a seguire le lezioni. Allora i professori avrebbero detto: “Anche se sta all’ultimo banco, è il primo della classe”, e lui avrebbe sorriso, finalmente, però con la testa bassa perché aveva il vizio di non guardare negli occhi le persone quando gli parlavano.

All’inizio del secondo anno, aveva provato a cambiare posto. Il primo giorno di scuola, dopo le vacanze estive, era arrivato in classe presto e si era andato a sedere nell’ultima fila. Ma non appena i suoi compagni lo avevano visto lì, gli avevano riso in faccia: «No, tu di qua ti ci devi levare, hai capito?», «Torna al tuo posto, là, sbrigati.», «Vai dove sei sempre stato, vatti a sedere in braccio ai professori!». Quel giorno poi era tornato a casa triste, e aveva dovuto raccontarlo a sua madre, perché aveva gli occhi rossi e lei si era preoccupata credendo che avesse un’infezione: «Le nostre cose sono sempre difficili, non lo sai? Dobbiamo buttare sangue per ogni cosa, non ci può niente con noi. È da quando siamo nati che è così. Per gli altri è facile, per noi no.», lui aveva abbassato la testa mentre lei glielo ripeteva, ma dall’esterno sembrava che fosse per dirle di sì, e si era pentito di non averla guardata negli occhi.

 

«Se non salta fuori il registro entro la fine dell’ora, sarò costretto a chiamare il preside. State scherzando con un documento pubblico! Ve ne rendete conto?». Mazzola fissò il professore e sospirò. Come poteva tenere tutta la classe in piedi chiedendo come un pappagallo: “Chi è stato? Chi è stato?”, quando era logico che avrebbe subito dovuto sospettare di Aloi e Mangiapane. Avrebbe dovuto dire loro: «Se non la smettete di essere così, lo sapete dove finite? Al Malaspina!», come faceva sempre prima di scrivergli una nota sul registro.

 

Aloi e Mangiapane erano i ripetenti della classe e facevano a gara a chi avesse più note. Passavano le ore di buca a sfogliare il registro, seduti in cattedra. Le note prese in coppia valevano un solo punto, mentre quelle individuali, due: «Aaah, ti ricordi questa?», aveva detto, un giorno, Mangiapane ad Aloi. Mazzola li ascoltava dal primo banco, ma di nascosto, facendo finta di niente, tenendo la testa bassa sul quaderno, riuscendo a guardarli solo di sfuggita muovendo gli occhi in su come un tic. Mangiapane aveva letto ad alta voce:

Durante l’ora di italiano, Mangiapane si è spogliato davanti alle compagne.

«Però, questa vale tre punti.»

«No, ma quando mai. Perché deve valere tre?»

«Come perché? Ma come ragioni? Cetti si è messa pure a piangere.»

«Boh non lo so, alla fine tutti lo possono fare… è che tu non vuoi fare le cose giuste con tutti ’sti punti in più a minchia», aveva detto Aloi e si era alzato dalla cattedra. «Vabbe, mi fai smuovere i nervi quando fai così. È sempre come dici tu, ma va scassaci, va’. Vale tre punti e basta!», aveva detto Mangiapane, si era alzato pure lui, ed era andato in fondo alla classe calciando gli zaini che si trovavano per terra. Mazzola si era girato a guardarlo senza più nascondersi, perché tanto anche gli altri compagni lo stavano fissando, e a lui piaceva quando succedeva così, quando tutta la classe faceva caso alle stesse cose alle quali faceva caso lui: Avete visto? Mica uno se le può inventare le cose. Guardate quelli che stanno combinando. Mangiapane si era fermato davanti al gruppetto di compagne riunite in un solo banco a parlare, e si era abbassato di nuovo le mutande come quella volta: «Cetti, guarda ’sta minchia!». Cetti e le altre compagne avevano gridato. Mazzola aveva distolto subito lo sguardo, si era rigirato a guardare la cattedra vuota, mentre sentiva le orecchie  bollenti. «Cetti, dai, non fare così, lo sai che ti amo», aveva detto Mangiapane rivestendosi, «Avanti, Cetti, non te la prendere a male. Lo dovevo fare». Aloi si era messo a ridere: «No, ma tu sei malato proprio. Va bene, tre punti, segnato!». Poi Cetti e le altre erano uscite dalla classe tenendosi per mano e avevano chiuso la porta. Mazzola aveva sentito Cetti scoppiare a piangere: «Perché deve fare così solo con me?».

 

Nonostante per lui fosse logico, Mazzola comunque non aveva la certezza che il registro lo avessero preso Aloi e Mangiapane. Seduto al primo banco, lui si accorgeva di tutto, guardava tutto, capiva tutto, perché come gli diceva sua madre era nato con gli occhi aperti. Proprio quel giorno invece, non si era accorto di niente: Ma quando è stato? Cosa ho fatto a ricreazione?, si mangiava le unghie mentre rifletteva. Lo poteva fare in pace solo a scuola perché a casa sua madre lo sgridava: «Le mani a posto!», e gli dava uno schiaffo sulla testa. Cosa ho fatto a ricreazione? Sono andato in bagno, forse l’hanno preso mentre ero in bagno, o forse prima, ma prima quando? Ma perché sono così cretino… come ho fatto a non vedere niente?.

«Mazzola, perché ti mangi le unghie?», disse il professore, e lo guardò negli occhi. Lui tolse subito la mano dalla bocca e abbassò lo sguardo, sentì le orecchie diventare calde: Ma sono stato io?.

Si ricordò di quando era alle elementari. Una volta la maestra si era allontanata un attimo dalla classe e tutti si erano alzati per parlare e giocare. Lui e i suoi compagni di fila stavano facendo finta di essere gli animali della giungla: si rincorrevano, si saltavano addosso e facevano i versi. Mazzola faceva il leone e rincorreva Mirko che faceva l’elefante. Era riuscito ad afferrarlo, aveva aperto la bocca e aveva fatto un ruggito fortissimo. In quel momento, però, la maestra era tornata. Mazzola aveva richiuso subito la bocca ma il suo ruggito si era sentito sopra le altre voci, le aveva risucchiate, lui sopra tutti. Gli altri erano tornati in fretta al loro posto mentre la maestra era ancora ferma sulla soglia: «Chi ha gridato così, di chi è questa voce?», aveva detto indicando l’aria. A lui erano diventate le orecchie bollenti. La maestra era entrata in classe camminando lentamente, si era seduta e aveva incrociato le mani sulla cattedra: «Chi è stato? Vi avevo detto di rimanere buoni in silenzio». A Mazzola bruciavano gli occhi, li strizzava, gli batteva il cuore forte e per questo si era spaventato. Doveva farlo per forza, era giusto, doveva alzarsi e dirlo che era stato lui, certo, doveva dire “Sono stato io”, perché se non lo avesse detto lui, nessuno avrebbe potuto dirlo e la classe sarebbe rimasta ferma e zitta per sempre. Così, aveva spostato indietro la sedia per alzarsi e prendersi la giusta colpa, quando un compagno che prima non stava manco giocando con lui, aveva alzato la mano e aveva detto: «Sono stato io». La maestra lo aveva sgridato e poi aveva ripreso a fare lezione. Mazzola aveva strizzato gli occhi e mosso la bocca per dire qualcosa, ma gli era uscito solo un rumore con la gola, uno schiocco, e alla fine non aveva detto più niente: Quello è così cretino che si è scambiato con me, gli pare che ha gridato lui. Manco sa riconoscere la sua stessa voce, mischino,’sto schifoso inutile. Sono stato io, io! Solo io riesco a fare quel ruggito.

 

Si ricordò di quella cosa mentre il professore ancora lo fissava aspettando una risposta: «Mazzola, ma che fai, perché non mi guardi in faccia, non mi dire che sei stato tu…». Lui cominciò ad alzare e abbassare lo sguardo, a voltarsi a destra e a sinistra: Sono stato io come quella volta, solo che non me lo ricordo. Per questo nessuno dice niente, stanno aspettando a me. Mi devo sbrigare prima che arriva qualche altro cretino a prendersi la colpa al posto mio. Per ora ho troppi pensieri… troppi pensieri, per questo l’ho fatto e l’ho cancellato dalla mente. Per forza io sono stato, il professore se n’è accorto, mi guarda da un’ora. Quando è giusto, è giusto. Il registro però non me lo ricordo dove l’ho messo, ho troppi pensieri che cancellano quelli passati e sono sempre nuovi e così all’infinito. Quando torno a casa lo devo dire, torno a casa e dico: “Mamma, lo vedi? È come dici tu, non ci può niente con noi, dobbiamo buttare sangue per ogni cosa,infatti non ti devi arrabbiare con me, è capitato così, ti ascolterò sempre, sempre”.

Il professore si alzò dalla cattedra e si mise davanti al suo banchetto: «Allora, Mazzola, lo tiriamo fuori questo registro?». Stava per dire di sì, che era stato lui, quando Aloi sbatté il pugno sul banco facendo spaventare tutti: «Oh! Ma chi? Che c’entra lui?», uscì dall’ultima fila, attraversò la classe e si fermò davanti la lavagna appesa alla parete. «Al posto!», disse il professore ma Aloi invece sollevò un poco la lavagna dalla parete e il registro cadde per terra. «Qua è il registro», disse Aloi, e Mangiapane dal fondo della classe scoppiò a ridere.

«E ti pareva che non eri stato tu», disse il professore, «raccogli il registro e andiamo in presidenza, te la faccio finire io la voglia di scherzare. Mangiapane, tu niente mi devi dire? Lasci il tuo amico da solo?»

«No, sono stato io da solo! Lui niente ne sapeva.»

«Va bene, come dici tu. Tu o lui sempre gli stessi siete. Allora… io mi sto allontanando col vostro compagno, sedetevi e aspettate in silenzio la fine dell’ora». Il professore uscì lasciando la porta aperta, Aloi lo seguì tenendo il registro sotto braccio e prima di scomparire dietro lo stipite, si girò verso Mangiapane, fece il numero “tre” con le dita e sorrise.

Mazzola si sedette finalmente, sentiva le gambe stanche. Teneva la testa bassa, i pugni chiusi sulle cosce e sentì una goccia di sudore scivolargli sulla nuca ma non l’asciugò. Strizzò gli occhi, guardò sotto il banco e sotto la sedia perché gli pareva fosse caduto qualcosa. Si raddrizzò e trovò Mangiapane appoggiato al suo banco: «Ma che minchia c’entravi tu che ti sei immischiato?». Mazzola lo guardò e strizzò i denti come quando sorrideva:

«Chi, io?»

«No, un altro! Uno che sta passando là di fronte, guarda. Se sto parlando con te, chi deve essere?»; la campanella suonò, tutti si alzarono e cominciarono a ridere e parlare forte, «Boh, sei tutto… strano». Mazzola vide Mangiapane allontanarsi nella confusione della classe. Il suono della campanella era metallico e lunghissimo, ma né in quel trillo, né fra le urla dei suoi compagni, lui riuscì a riconoscere la sua voce.

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