I pornofilosofi sono così chiamati perché spogliano con violenza le idee e le mostrano nude in pubblico svelando a chiunque le loro parti più intime. Non hanno pudore, i pornofilosofi. Siedono in semicerchio sui loro pornoseggioloni e mi fissano con quei loro occhiacci gonfi di stupore. La Verità, mi gridano …
Fisicamente abitiamo uno spazio, ma nella crudele realtà di questo inconsistente prisma abitiamo nient’altro che una memoria storta.
Di roccia metamorfica, con quei suoi occhi pieni di storia storta, la poesia compare e scompare. Interroga l’inesistenza. Parla con l’acqua. Scrive l’impossibile con i colori di un’indocile capigliatura.
Avrei voluto regalargli almeno un albero, uno qualsiasi fra i molti di cui non conosco il nome.
Passa di qua e mi scrive a caso una lettera sull’entusiasmo. Mi chiede a caso un bicchiere d’acqua, due matite, un passamontagna. Mi chiede delle Dolomiti più remote, dicendo: da qui non ne vedo passare neppure una.
Non ha mani. Non ha collo. Non nitrisce, non nuota, non rotola. Non ha inverno. Non ha pace. Non ha guerra.
Me lo vedo arrivare via mail. Affannato, cammina a grandi passi con scarponi di creta. Somiglia al tasto “invio” della tastiera. È alto come una penna a inchiostro blu. Però sa essere anche un bestione di tre metri. Con quegli occhiacci pieni di luce storta che lui stesso sconosce.
Era un momento cadente, di quelli che si aprono a spicchio. (Francesco trotta a quattro zampe verso il puntino che nessuno vede. Trotta e pesta foglie di mandarino). Era un momento. Poi era il tutto.
A salti illogici. A righe alterne. Mi dà un saluto da quel suo lontano provvisorio. Da qui, a un metro e mezzo dalla galassia Sweqtxz. Dal morbido abisso di Tusa, provincia di Messina. Ad andate e ritorni. A scritti zitti.
Ha mani aperte che sembrano chiodate. Mi scrive da lontano ad ampi gesti floreali. Cioè, da questa vicinanza rotolante. Mi parla a spighe, a rami di olivo. Non può essere. L’essere è il nulla, mi direbbe.