da I GIORNI QUANTI (39)

Dopo la morte di mio suocero sembrava che mezzo secolo di servitù matrimoniale l’avesse ormai rassegnata alla quiete delle quinte. Dopo il tempo giusto per l’ossequio delle forme, invece, eccola rinvenire con colpi di reni micidiali, che stendono con una sola battuta figli e nuore, che sterminano senza rivendicare ma guadagnandosi il diritto di godere dei frutti di quanto accumulato mansuetamente negli anni della guerra matrimoniale. Sotto il panno che la ricopre la sua pasta ha continuato a lievitare meglio.

I morti, semplicemente, non esistono più. Nemmeno come guardiani. Dove se lo immagina suo marito, adesso che è morto, con chi pensa se la faccia? E dove vuoi che me lo immagini? Sottoterra, dove l’abbiamo vurricatu, solo. La migliore fotografia di mio suocero, adesso, è illuminata e in parte coperta da un grosso cero rosso spento, comprato da mia suocera dal tabaccaio anarchico. E come farà il poveretto per vedere tutto, per non lasciarsi sfuggire con chi è uscita sua nipote. Non sono certo adeguate misure di devozione i ceri fallici dei cimiteri. Quello che resta dei morti è ruga nelle facce, è intrecciato sopravvivere nei gesti e nella forza di chi ancora non è morto. Mefistofele ha torto. I vivi aspettano la morte degli altri per approfittarsene, per vendicarsi, per tradire cominciando a cambiare loro nome.

“Chi prima non pensa, all’ultimo sospira.”

Di volta in volta tento di essere, fisicamente, il poeta o lo scrittore che mi commuove, la persona che amo.

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