IL SELVAGGIO

Leggo, con sostanziale complicità, l’articolo di Marco Archetti su Il Foglio di qualche giorno fa, “Elogio dello scrittore stupido”, e ricordo che 8 o 9 lustri fa, Gaetano Testa ed io avremmo commentatolo: “acqua frisca”. L’articolo gira intorno ad una citazione del Noiosissimo: “Se nella gerarchia delle virtù l’intelligenza occupa il secondo posto, solo lei è in grado di proclamare che l’istinto occupa il primo”. Glisso sull’oscuro neologismo proustiano di “istinto”, e rifletto sul significato della parola “intelligenza”, cioè del vestitino che ognuno di noi si porta in fronte se vuole andare in televisione. In un passo di Wislawa Szymborska, che rintraccio in toilette tra “Il piacere di leggere” di Vittorio Sermonti e “Il lettore di immagini” di Charles Simic, leggo: «Il poeta (si perdoni l’improprietà, Gaetano ed io avremmo corretto cristianamente “Colui che scrive”) può anche avere conseguito in modo trionfale sette lauree, ma nel momento in cui si mette a scrivere (versi, sic) l’uniforme del razionalismo comincia a stargli stretta. Ecco che allora si agita, sbuffa, slaccia un bottone dopo l’altro, finché alla fine non salta fuori dal suo vestitino, mostrandosi a tutti come un selvaggio ignudo con l’anello al naso. Sì, proprio un selvaggio; come chiamare altrimenti una persona che chiacchiera (in versi, sic) con i morti e i non nati, con gli alberi, gli uccelli e perfino con una lampada o la gamba di un tavolo, senza ritenere tutto ciò una idiozia?».

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