E POI CULI PERFETTI di Francesco Gambaro

E poi perché hanno culi perfetti, che si possono riparare. Belladonna cinquantenne, dietro la finestra, occhi rivolti alla strada, studio o stanza da letto odorosi. Forse del suo analista, forse del suo amante-avvocato. Più cumulativamente analista: ascolta professionale, coadiuvato da un discreto Sony recorder, la confessione dei tradimenti del marito. Fuori, la strada delimita il passaggio da città a periferia. Nel cul de sac dove si interrompono, periferia e strada, due uomini vestiti da minatori. Uno guida i lavori, l’altro perfora la parete di una antica casa diroccata con il martello pneumatico. Dietro i vetri lei non sente. Forse perché isolanti, forse perché i due stanno tentando di superare il muro del suono. Un ultimo affondo, l’uomo sfila via l’anima dell’attrezzo. Il direttore dei lavori inserisce il dito gialloguantato nel pertugio e tiraverso. La parete si apre come una grande porta di salgemma e madreperla, inviando alla finestra e alla signora barbagli di luce tempestata da gocce d’acqua. Il resto della strada, che prima lì finiva, ora continua disegnando un viottolo incolto. Tutto qua il muro del suono? domanda con gli occhi il minatore sconsolato. La belladonna sembra ora avere occhi ciechi, biancomadreperla e salgemma. I due attraversano il muro del suono e si smaterializzano. Tre minutibuoni di impassibile silenzio, rotti dall’eco delle ultime parole: e poi perché hanno culi perfetti, che si possono riparare. Si scuote, guarda lo Jaeger-LeCoultre. E’ tardi, devo andare. Raccoglie l’Hermès dal divanetto, si avvia. Per la prima volta una voce maschile, dal recesso della stanza: dimentica l’ombrello.

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