“Senza un fallo di porcellana l’arancia non può dirsi meccanica” di Francesco Gambaro

La prima scena è questa: due smandrappati ladruncoli rubano a Soho la scultura di una smandrappata artista che ha rinchiuso in cartapesta il corpo di Paul Hackett (Griffin Dunne), bancario smandrappato. Finisce che lo scaricano, senza accorgersene e rompendolo, dopo una notte pluviale e fuori orario, davanti la sua banca. L’altra scena che precede la prima risale al 1970: “Nell’ufficio della Hawk Films un enorme fallo bianco rifletteva la luce proveniente dal soffitto. Di fianco, due ragazzi lo guardavano immobili. Erano le nove e mezzo di sera. Fuori pioveva, avevo freddo e volevo tornare a casa. Giravo per Londra da oltre diciotto ore e adesso scoprivo che ad spettarmi per l’ultima urgente consegna c’era un grosso fallo di porcellana. – Ragazzi – li riscossi – mi date una mano voi a portare questo affare? Lo trasportammo fino alla Minx ma, come temevo, non entrava nel bagagliaio. Adagiammo il fallo sul sedile anteriore. La punta sporgeva dal finestrino: ragazzi, non avreste mica una coperta?”. E’ l’inizio di “Stanley Kubrick e me” (Il Saggiatore), scritto con sviscerato amore e sedimentata emozione da Emilio D’Alessandro, autista e poi insostituibile assistente di Kubrick. Senza quel gigantesco fallo bianco, che Emilio trasportò sulla sua Ford Capri, l’arancia non sarebbe mai diventata meccanica.

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