UNA TAZZINA DI CAFFE’ 2

Mi è stata contestata la tesi sostenuta in “Una tazzina di caffè”. Impossibile non riconoscersi, anche se il nostro volto cambiasse non milioni, ma miliardi di volte. E questo in ogni luogo e in ogni tempo: noi non ci riconosciamo per le sembianze che uno specchio rimanda del nostro viso, o perché quelli che ci sono vicini ce lo confermano continuamente, ma per la coscienza che abbiamo di noi stessi. Difatti ci riconosciamo anche al buio. E in assenza di specchi. E non abbiamo alcun bisogno di palpare ripetutamente le linee della nostra faccia in un’esistenza angosciante. Ma Charles Bennet, com’era solito, percorreva la strada che lo portava in ufficio a piedi. Da Stanley road a Queen’s road, anche se diluviava. Migliaia di volte, ancora, aveva percorso quello stesso tragitto unicamente in un senso e in un altro al ritorno. E non vendeva elettrodomestici ma era un funzionario della Banca d’Inghilterra. E non si era neanche mai mosso da Londra, questo da quarantott’anni. Il fastidio che sostenne di sentire ogni qualvolta sorbì il caffè di Mrs. Randall non era che una ferita del labbro causata da una maldestra rasatura. Non c’era alcuna tazzina. In quanto all’imbarazzo, bè, Charles Bennet era un solitario. Mai sarebbe entrato in case sconosciute. Molto spesso si metteva a pensare: questo è un sogno, una pura diversione della mia volontà, e dato che io ho un illimitato potere voglio causare le belve che desidero. Chi conosca quella via, poi, sa benissimo che non ha alcun numero tre: Stanley road non ha affatto numeri dispari. Le case sono disposte solo sul fianco destro della strada.  

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