SOMMOSSE NERE

Realmente il nostro è un muovere le norme in giro, rotolando sul suolo o nei porti o pagando coi soldi. E’ un’occasione illudere se stessi, chiamarci pronome sesso. Il sesso lo illudevo, la parola sesso era sottolineata a dismisura. IO o TU, a dismisura. Ma si trattava di puri esercizi. Avanzavo lesta eppure mi incastravo nella porta rotatoria e allora sembravo un petalo tremolante strappato da un iris viola col mio trucco viola sottolineato a dismisura. Com’ero triste e bella da strappata, morbida al punto da sembrare una spirale. Scivolavo tra i denti della poesia, fino a che sorga la creatura regressiva.

Le famiglie entrano nel cielo attraverso il tunnel dell’estate. Io le guardo stabilirsi il sesso mentre il sole le assorbe. Il sesso mi ha stancato, mi sono aperta, ho riso. Il sole e un orologio pulsano alla stessa maniera io me ne sono accorta e ho anche cercato di rivelare la mia scoperta. Ma la piattaforma rotolava sul gladiatore rigido del papà sulle belle gambe di mamma e sui ricci castani dei bambini, fermi al porto turistico, a guardare le barche splendere. Partire.
Dunque questa è una bella immagine per un coito ma non è una piattaforma che basta per rispondermi quando mi sono chiesta come tutto quello è potuto accadere.

Con la naturalezza del male, con una pietra in bocca ho scelto un nome che mi echeggi per sempre ed era un nome semplice come un pugnale. Un coito circuito che ci lascia tutti al buio. Tutti, ossia me e i mie due figli. E io li vedo ondeggiare, i miei figli, come le fronde al vento secco del pepe rosa, si allontanano, tornano.
E sì, siamo quasi al buio, e io dovrei cercare una spiegazione.
Devo fare il ritratto a questo buio. Provo a fare il ritratto a queste sommosse nere. Colpa della maledetta violenta adolescenza, eppure i miei figli crescono, eppure una volta sgambettavano e adesso anche loro devono musicarsi coi loro disegni di atomi e specchi e montagne. E io non posso inchiodarli all’immobilismo né alle risacche essenziali – tossine stoppose, e coriacee, e vertebrali – da vedova una, due, cento volte.

Ma come tutto questo è potuto accadere. Mi chiedo com’è spaventevole il nascere, l’aggressione fulminea, forse anche spicciativa, perpetrata a un bebé con pioggia, mesi, denari, il niente. L’abominevole nuovo continuo del niente. Nonostante le mani carezzevoli, sporgenze del per nulla, dell’in alcun modo, inganno della privazione. L’assente frutto del buio. Ingozzarlo di digiuni. Dissetarlo di fluidi invalidi. Il nato è equilibrare materno senza proprietario, senza amore, senza madre. E perché amiamo i nostri genitori senza sapere amare i nostri figli. Il buio è l’impossibilità di un reversibile amore. Le attenzioni sono vicendevoli, ma in fatto di sentimento lo scambio non è praticabile. Le registro come affermazioni ma le rilevo con un punto interrogativo.

25 centimetri di pioggia, 22 mesi dopo, 15 denari, 100 di niente. La sigaretta fumata a metà con un architetto che esprime talento solo alla sesta colonna, l’abito di spighe fatto cucire e lasciato a profumare di vecchia estate nel reparto remoto dell’armadio, scrivere su un taccuino tutte le cose che sono irreversibili, a cominciare dallo splendore equatoriale per finire con la borsa della spesa. Languire nelle fluttuazioni del nemico vero perché chi ama aspetta e il nemico è l’origine della specie.

*foto di Robert Mapplethorpe

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