Secondo il capo muratore alle sette e trenta dovrei essere già alzato, lavato e vestito pronto per assistere alla demolizione del patio. Invece scampanella più volte e dopo aver risposto al citofono li lascio dietro la porta per altri venti minuti. Attendano. Il capomastro mi dice che ho la faccia assonnata. Rispondo che a casa mia ho la faccia che voglio. Non mi ascolta, spalanca le persiane del giardino e da il via alla processione dei mastri con tubi e ferraglia. Sarà difficile. Che si sbrighino. Mi ritrovo nel soggiorno seduto sul divano avvolto in un coperta. Bevo caffè, guardo una trasmissione del mattino filtrata dalla polvere che sale a mulinello dalla porta. Potrebbe entrare chiunque. Canestri di giunture accatastate al centro delle aiuole. Rumore. Mi chiamano: vorrebbero tagliare il nespolo e rami del mandarino. Non se ne parla nemmeno, ritorno sul divano. La coperta sino al naso e la T.V. Sogno l’arpista. Non c’è modo di aggiustare la bicicletta che ci porta a casa. Non c’è modo di concludere il sogno. Mi sveglio. Esedra è chiuso. Ne da notizia il geometra contrariato di non aver potuto prendere il caffè. Pare che nella notte ci sia stato un principio d’incendio. L’interno del locale è stato danneggiato. Ci vorrà del tempo per rimetterlo a posto. Il tempo dell’assicurazione e dei lavori. Il geometra si affaccia nel giardino per controllare, rientra tirando fuori dalla tasca un biglietto da visita che mi consegna. Zenit, il pub che gestisce con profitto. E’ il locale dove balla Sasa e canta Amanda, il locale gradito l’architetto. Lo ringrazio e gli chiedo per quanto ne avrò. Non c’è da sperare. Mi avvicino al giardino. Il patio è già ingabbiato dai tubi. Suono a campana soffocata ad ogni caduta di calcinacci. La soglia di marmo è rotta. Lo faccio notare al geometra. Mi risponde che era già segnata. Ribatto che non era il caso di romperla del tutto e lui risponde che vi sono potenti collanti che fanno miracoli ma non ora.
(capitolo tredicesimo) E GLI AVOCADO SPARIRONO NEL GIRO DI UNA NOTTE
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