(capitolo quarantatreesimo) E GLI AVOCADO SPARIRONO NEL GIRO DI UNA NOTTE

“bisogna zittirlo con un ceffone”,la commessa, alzò gli occhi e mi guardò stupita. Da allora per quello che le affido ha una cura speciale. Regola al meglio la densità del nero, scarta le mal riuscite e sbircia ciò che le do da duplicare. Non sembra essere molto gratificata dalle sue fugaci ricognizioni, ma nel tempo la sua gentilezza formale si è stemperata in un sorriso sempre più zuccherino. Boccoli ossigenati, occhi neri in un viso pacioso. Da dietro il banco sembrerebbe carina. Le sue minute cortesie cessano nette all’apparire un signore anziano dal retrobottega. Il titolare o forse anche un parente.  Il vecchio poggia le mani sul banco e guarda fisso dinanzi a se. Come dire “ci sono”. Un ragazzo di colore che appare e scompare   dietro la tenda del settore eliografie a trafficare con geometri. Capita lui al banco quando entro nella copisteria con l’album Fabriano A4 dei disegni. Inoperoso, vuole dare veloce i fogli alla macchina, ma la commessa glieli toglie dalle mani: – questi li faccio io – Separa e saggia la consistenza delle carte, valuta controluce la trasparenza

– difficile che non passi il segno della cancellatura sul retro – dice quasi con preoccupazione. Gira il primo foglio, si ferma a guardare il grande disegno dell’albero e il nudo di spalle, stringe impercettibilmente le labbra, mi guarda, prende il secondo foglio, insiste su i segni, le figure, la carta: – Le braccia non hanno mani, le gambe non hanno piedi.- non le rispondo. Passa al terzo foglio: – Tre steli d’erba o fiori tra piedi che non ci sono. – mi limito a guardarla. Continua fervorosa: – Copie identiche fronte dietro o sei fogli diversi? – rispondo: – tre identiche –  A sorpresa va alla macchina nuova che non usa mai, l’accende. Ordina la successione dei disegni. Bip. sorride. Una scansione a vuoto. La macchina è calda, pronta. Mi accorgo ora che il vecchio è entrato e guarda dinanzi a se  inespressivo. Lei continua, allegra.  Posiziona il primo foglio sul ripiano. Fa una copia. Verifica il risultato. Lo appallottola, lo getta via, becca a colpo il cestino. Regola l’interfaccia col l’indice.  Lancia una seconda scansione. Soddisfatta, frizzante, continua con il resto. Mi chiedo se l’architetto frequenti questo posto. Il ripiano si illumina per sei tratti veloci a filo. La commessa mi consegna originali e copie, il ragazzo di colore ha già battuto lo scontrino. – Bei lavori – mi dice, strizzando l’occhio. La commessa sorride, allegra, con gli occhi bassi. Avrei dovuto escogitare il modo di chiederle un appuntamento senza darlo a vedere e senza che un suo eventuale rifiuto mettesse in discussione la mia presenza futura nel negozio. Ma come, dove? Da escludere bar e librerie. Penso ad un galoppatoio, una chiesa o la sala d’aspetto di una qualche stazione secondaria nelle vicinanze. Avrebbe avuto modo di raggiungerli? Darle da fotocopiare un foglio con scritto sopra il giorno, l’ora, vorrei incontrarla. Desidero incontrarla domani ore… nella… sala di prima classe… a… e poi lasciare che lei gestisse il foglio in macchina e, nel caso, ormai improbabile, che non sbirciasse la scritta, ridarle l’originale e copia dicendole: – cerchi di dare più nero qui, come vede non si legge. –   Due giorni dopo, pomeriggio, sono deciso nell’attuare il mio piano, vado in copisteria. Trovo l’uomo di colore al banco, il vecchio alla cassa. Di lato sul banco una bimba di circa sei anni si trastulla con le tessere di un grande puzzle colorato. Lei non c’è.

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