LO CHEF

Ogni società, da quando l’uomo è uscito dalle caverne e sceso dalle palafitte per vivere in comunità organizzate, ha avuto le sue figure tipiche, che hanno dato per qualche tempo una nota di colore a quella società e poi sono uscite di scena perché altre figure tipiche si presentavano alla ribalta, in quella stessa società mutata, per recitare in nuovi ruoli.
Penso al SICOFANTE nella società greca. Secondo il sistema legislativo ateniese un processo non poteva essere istruito contro un accusato, se non c’era qualcuno – un qualsiasi cittadino – che lo accusasse. Ciò favorì il sorgere di un ceto di accusatori di professione, che col tempo abusarono del proprio potere e costituirono un pericolo per la facilità con cui potevano rovinare il prossimo con false accuse, ricatti ed estorsioni.
Nella società romana fu tipico il personaggio del PARASSITA, un adulatore e uno scroccone che si attaccava come patella a qualche patrizio incensandolo, offrendogli i propri servigi e ricevendone spesso umiliazioni, pur di ottenere un posto a tavola e qualche volta un soggiorno più o meno lungo nella sua dimora.
La società paleocristiana ci ha reso familiare la figura dell’ EREMITA, sant’uomo praticante il più rigoroso veganesimo nell’alimentazione e destinato a contrarre dolorose artriti nei luoghi dove sceglieva di abitare, solitamente grotte umide ed esposte ai quattro venti.
A partire dal Medioevo e per tutto il Rinascimento divenne indispensabile nelle corti d’Europa la presenza del BUFFONE, un nano che divertiva nei conviti e fuori dei conviti il suo signore con celie e piroette e, poverino, anzitutto col ridicolo della sua persona ed il particolare abbigliamento che la copriva, come il cappello a sonagli e la giacchetta a pizzi.
Il Seicento rese illustre la figura del PREDICATORE religioso, che intratteneva nelle chiese gente in lacrime con descrizioni minuziosissime dell’inferno, come se ci avesse trascorso anni della propria vita. Involontario attore tragico, urlante e gesticolante, alla fine della predica strizzava le ultime gocce di pianto all’uditorio mettendosi una corona di spine sul capo, flagellandosi le spalle e martoriandosi a sangue il petto con una corteccia di sughero chiodata.
Nella settecentesca società dei Lumi emerse la figura del CICISBEO, detto anche cavalier servente. Era una prerogativa della classe nobiliare. Si trattava di un gentiluomo che si metteva cavallerescamente al servizio di una gentildonna coniugata. Il suo compito – autoimposto – era quello ( come è egregiamente descritto in una scheda di Internet ) di accompagnarla “in occasioni mondane, feste, ricevimenti, teatri; e di assisterla nelle incombenze personali quali toeletta, corrispondenza, compere, visite, giochi”.
Il cicisbeo “passava con lei gran parte della giornata e doveva elogiarla, sedersi accanto a lei nei pranzi e nelle cene, nelle passeggiate o nei giri in carrozza…. Per la dama era fondamentale che il cicisbeo avesse delle qualità apprezzabili nella vita di società, cioè avvenenza, educazione, spirito, abilità nella conversazione, cultura”.
Nella società di cui stiamo vivendo i pochi onori e le molte vergogne la figura che mi sembra di poter accostare alle precedenti per tipicità é lo CHEF. Chi è lo chef? Di lui si possono dare più di un paio di definizioni. Anzitutto è umanamente una persona antipatica. Da quello che ho visto in televisione, dai racconti degli amici che li hanno frequentati sul lavoro e dall’esperienza che ne ho io, é un divo che ostenta disprezzo per collaboratori e allievi.
Professionalmente è un apostata della buona cucina, traditore della madre e della nonna che lo hanno fatto crescere con cibi nutrienti e saporiti. Come innovatore è un pericolo per il paese che gli ha dato i natali, perché lavora con alacrità e ostinazione al disfacimento della sua tradizione gastronomica.
Non voglio aggiungere altro, se non, brevemente, l’ultimo episodio che ha visto me e lo chef guardarci con aria di sfida davanti ad un sedicente piatto di spaghetti alle vongole. Luogo dell’avvenimento un ristorante molto bazzicato del mercato di Siracusa.
Apprendo all’ultimo istante, quando già ci siamo seduti, mia moglie ed io, e abbiamo letto il menù, che hanno uno chef, e già mi metto di malumore. Dopo un po’ mi servono al centro di un piatto largo ed elegante un grumo – non saprei definirlo altrimenti! – un grumo, non più grande del mio pugno, di spaghetti ( circa cinquanta grammi ) da cui cercavano di far capolino tre cozze tre e sette telline minuscole sette, contate una ad una con la punta dell’indice.
Avevano almeno un buon sapore? – mi si chiederà. Dio solo lo sa….

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