(L’OCCHIAIA. 27.)

 In una qualche maniera scavalco la cancellata, alta, di un bianco immacolato, e, alcuni passi più tardi, mi imbatto nella prima di queste enormi vasche circolari in cemento,  interrate e sparpagliate qua e là, fra le stoppie semi-carbonizzate, nella assolata campagna sicana. Infastidite dalla sguaiata invadenza dei miei sguardi, torme di mosche, si levano in volo dalle putrescenze  ristagnanti in fondo alla vasca: impossibile sfuggire a questa nera moltitudine inciprignita che di continuo accerchia e scontorna la mia figura! Do vane manate a destra e a manca mentre barcollo, stordito dal ronzio assordante, verso la vasca successiva, piena questa e fino all’orlo di un liquido mucillaginoso, maleodorante, infido…  Vinco sul nascere ogni paura, ogni ripugnanza, trattengo il respiro, chiudo gli occhi poi mi tuffo  e nuoto, nuoto finché non raggiungo il fondo… Quando riemergo in superficie la mia pelle riluce sotto i raggi già estivi del sole; – non c’è traccia degli immondi insetti molesti ma una voglia pressante mi spinge dritto verso la prossima vasca…   

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