V. indossa un pantalone corto scuro, senza tasche e una camicia smanicata, molto aperta sul petto. La festa, lontana dalla sua casa, lo costringe a prendere l’autobus. Il sole, già alto, entra con prepotenza, impendendogli di guardare la strada e i palazzi intorno a lui. Sceso, cammina. Alla prima vetrina, come sua abitudine, si gira per guardare il suo riflesso: c’è la volgarità degli indumenti da lui indossati. La camicia, troppo larga, cade lasciando gran parte del petto scoperto. Ormai è tardi per tornare indietro. Arrivato, V. prende l’ascensore dove ritrova la volgarità dei suoi vestiti. Imbarazzato entra, nascondendosi dietro ad un sorriso naturale e una calorosa stretta di mano. Un folto gruppo di amici circondava V. I suoi amici sono senza nome. Tutto è senza nome: la città, le persone, gli oggetti. Vive l’assoluta impersonalità. La stanza da loro scelta è dominata dal colore grigio. Le stoviglie, le sedie, le mura, ogni cosa. Nulla non tradisce nulla, se non una stupida formalità. V. si scusa per il suo abbigliamento poco adeguato ma loro, con accento di superiorità, gli dicono che quella è solo una festa fra pochi intimi e che avrà modo di cambiarsi per il matrimonio. A queste parole cresce in V. la voglia di ucciderli, tutti. Mentre gli raccontano come sarà il matrimonio, immagina il modo in cui potrebbe farlo. Il suo piano è semplice: durante il pranzo, andare dietro ad ognuno di loro e tagliare la gola.
“Come evitare che, al primo fiotto di sangue, scappino via impauriti?” pensa V.
L’omicidio resta irrisolto, incompiuto. In un angolo V., intimorito li osserva, senza avere il coraggio di avvicinarsi, anche solo per ucciderli.