UN INVERNO DI CASE GIALLE (Prologo, Uno)

Continuavano con poche sorprendenti avventure. Non restava che un gran callo, una lingua impaurita di pelle di uragano, occhi senza appunti, catturati una notte nell’ombra delle luci di un palazzo, ora arato come un’esplosione. Alcuni lo chiamavano amore, ad altri brillava il corpo, ormai prossimo all’estinzione, tuttavia ad armeggiare erano sempre i sassi, i pollini, le stoviglie; la gente, con qualche moto d’orgoglio ancora nelle mani, sparava ai mocassini, alle Hogan, ai risvoltini dei pantaloni, alla gran sartoria, per ogni svuotata stagione. L’uomo, all’angolo di ogni foto, precisava con insistente argomentazione: nella scrittura ci sono stanze disabitate, che andiamo cercando per non morire di troppa folla. Su certe piume, allora, abitava un inverno di case gialle, dove qualcuno urlava alle parole morte, alle frasi abbandonate, ai periodi dismessi, alle lettere in frantumi, dai nostri secoli a venire.

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