(capitolo quarantesimo) E GLI AVOCADO SPARIRONO NEL GIRO DI UNA NOTTE

Eccomi. La suora guardiana è in penitenza, si ciba dell’indispensabile, raddoppia le giaculatorie e spegne il web: niente barzellette sporche, solo mortificazioni.  Oltre tutto l’amico é al campo e lei, nel rimorso, grata alla divina volontà, pentita, scaccia  le  tentazioni. Ero libera nell’insistere nei pensieri? Nei contatti di carne? Ero libera nel compiacermi del disordine del cuore? l’attimo vale l’eterno nel rimpianto?   Scansato l’inevitabile mi riconosco indegna. Eva ancor vergine concepì la parola del serpente e partorì disgrazia. La Vergine, accogliendo con gioia l’annuncio santo rispose: ‘Mi avvenga secondo la tua parola’. Io mi apparecchio alla Grazia. Ho mal detto, rovistato, desiderato, rubato, fornicato, mentito, ci metto anche il resto e mi pento in Maria che mi ha concesso di mancare nel frutto del peccato. Bacio il pavimento. Le mattonelle della terrazza. Serva. Mi bagno con l’acqua fredda. Asciutta e senza colazione, prego e lavoro. Medito, in pausa senza pranzo, tra gli ortaggi, lo scatolame, uova e farina che riordino per le sorelle. A cena, per me, pane duro, brodo freddo e l’esame della giornata. Non ero libera nella negligenza dei pensieri e delle azioni. Non ho rinunziato al comodo materasso e ho zuccherato il mio caffè tutti i giorni. Per lui mi sono unta senza modestia. Sottomessa a lui ho spiato il signor Giuseppe, frugato nella sua stanza, nel suo computer, tra fogli, libri e riviste, nei suoi quaderni. Ho segnato le azioni. Tempi. Denaro. Il mio sguardo doveva essere solo per lui e la sua lussuria.  Per mesi non ho spostato gli occhi dai miei piedi. Leggevo le porcherie che mi passava. Lasciavo si compiacesse nel realizzarle. Faceva lussuria della mia penitenza. Mi Toglieva il conforto della retta correzione colpendomi nell’arbitrio. In sua assenza mi imponeva il cilicio, a suo unico dominio e piacere.  Dissennata non davo limite al cibo perché dovevo saziare lui nell’abbondanza della mia carne. Obbligata ho mentito. Lui orchestrava cosa dire al confessore. Con apparente pentimento avevo da evocare la purezza minacciata, il persuadermi nella tentazione, le cadute, i piaceri e le scosse. Senza umiltà, con sfacciato candore polacco, dovevo dovizia di particolari. A lui, Geppo, avevo poi da riferire, gli occhi basiti del frate dietro la grata, il respiro affannato e il fruscio della sua tonaca persa. La Madre Superiore mi sorprese a rovistare nella stanza del signor Giuseppe. Le dissi che ero stata chiamata a mettere ordine. Fece finta di credermi. Avrei dovuto recuperare elenchi, appunti e disegni, invece solo due audiocassette. La madre superiore sequestrò i nastri e un rocchetto di rame da sotto il telefono fisso, la… pasticca del diavolo, disse, scollegandolo dal mangianastri stizzita. Mi presentai a mani vuote. Nulla per la sua soddisfazione e mia serenità. Sapevo che Geppo avrebbe maledetto le aspettative disattese e senza scusante sarei stata punita al belvedere. Mi prese invece, senza rispetto, nella dispensa con la porta aperta e passaggi a rischio. Al dunque di solito mi aspergeva lesto. Consideravo le sue sozzure benedizione. Ero convinta che alla fine dei tempi avremmo recuperato le perdite, cicli, scarti, sprechi, sputi e tutto il transeunte deluso. Quella volta invece concluse dentro senza ritegno ne precauzioni e ne fui stoltamente lieta. Avevamo dato spettacolo inverecondo a due sorelle e al signor Giuseppe.  Le sorelle negarono. Ridacchiando cercarono conforto dall’oculista. Il signor Giuseppe sforzò indifferenza, ma di fatto smise i suoi modi affabili e cordiali. Attraversava i corridoi guardando fisso dinanzi a se, non si soffermava nei locali comuni e salutava rigido a stento. Si sentiva truffato nelle sue fantasie. Inadeguato. Allo spaccio fece in modo di non incontrare il mio sguardo.  Gli diedi la sua acqua minerale e andò via con piglio sdegnoso. Sempre più spesso era a fumare sulla terrazza. A tutte le ore.  Una notte scura salii in terrazza. Cercavo rimedio alla mia insonnia. Il signor Giuseppe era lì a fumare. Vidi la brace rossa di lato alla ringhiera e il fumo che usciva dal suo naso. Non sembrò meravigliato dalla mia presenza. Mi affrontò con tono grave. La madre superore gli aveva dato le cassette audio dicendogli di avermi trovato a frugare nella sua stanza. Fermo voleva l’induttanza. Realizzai che si trattasse della pasticca trovata sotto il telefono. Non voleva credere che non fosse in mio possesso e comunque, avrebbe detto il resto alla madre superiore. Gettò via la cicca della sigaretta in una  parabola di faville oltre la ringhiera giù nella strada. Non era più il caso di condividere il tetto sotto il quale si consumavano lordure come quelle delle quali era stato involontario testimone. Disse così e ritornò a guardare di sotto in silenzio. Andai via, scesi le scale e indugiai davanti all’ingresso della mia stanza. Il risentimento del signor Giuseppe ci avrebbe distrutti. Entrai, accesi la luce. Le cose mi guardarono, io le vedevo e loro non mi vedevano. Non ero più io. Il calendario della Vergine nera segnava dieci giorni in rosso. Mi avrebbero cacciata. La suora guardiana non ha saputo badare a se stessa. Sarà allontanata con minor scandalo possibile. Domani presto di buon mattino appena alzata, senza colazione, riempirò il barattolo pronto e con una scusa andrò al belvedere con lui, Geppo, per il responso. La Vergine nera mi guardò dal calendario segnato dalla vergogna:

“le icone ci osservano, le icone sono un invito al pentimento.”

La voce arrivò nitida. Non era un ricordo nella mia testa ma un appello reale. Per un attimo fui convinta che ci fosse qualcuno alle mie spalle. Mi voltai. guardai dietro la tenda. Dentro l’armadio. Sotto il letto. niente. Mi ritrovai in ginocchio, senza intenzione. Rassegnata in obbedienza, immobile, umile ferma di certo pentita come in attesa di levitare nel fermento celeste, risvegliata nel perdono, piansi. Erano mesi che non disdegnavo piumoni e materasso evitando il tavolaccio. Baciai il pavimento, mi alzai, andai all’icona nelle lacrime, accesi un lumino, spensi la luce e mi distesi al centro della stanza a terra. Recitai tre gloria della purezza e con le braccia incrociate, serena, mi addormentai. Nel sonno ancora la voce: Vai.

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