VIAGGIO IN UNA STANZA (parte II)

Mi colpisce il fatto che le sue giornate trascorrano con metodo, ma senza abitudini rigide e con qualche insolita fiammata picaresca. Resta per alcune ore al tavolo da lavoro, una scrivania piena di libri allineati su un lato, un calamaio mi pare di rame sormontato da un’aquila, un tagliacarte con manico d’argento e un computer portatile, sul quale si sofferma scrivendo con fatica. Ma talvolta la sedia resta vuota a lungo e il suo passo lento si aggira per la stanza. Direi anzi che la maggior parte del tempo lo trascorra a camminare con sottile gusto da un punto all’altro: dalla poltrona in pelle scura in un angolo sulla quale si accomoda per interminabili minuti sopra pensiero o a leggere un giornale, al letto posto in fondo, in posizione felice di fronte al terrazzo, e dove i primi raggi del sole primaverile giocano sulle cortine; da un mobiletto-bar in acero rosso da dove a tarda sera prende un bicchiere di cristallo che riempie di un bel liquido bianco che potrebbe essere rhum o tequila, alla libreria in mogano che riempie un’intera parete e dalla quale ogni tanto estrae un volume che sfoglia per un po’ per poi rimetterlo cautamente a posto; dall’armadio a sei ante incastonato nel muro ricoperto da un’invecchiata carta da parati dai richiami liberty, alla galleria di quadri di piccole dimensioni sulla parete opposta, per lo più paesaggi bucolici, ma fra i quali spicca una versione novecentesca dell’episodio biblico di Giuditta e Oloferne, protagonisti nudi di un palcoscenico sanguinoso, sul quale si sofferma esaminandone i dettagli che gli appaiono sempre cambiati. Questo suo incessante percorrere l’ambiente non segue mai una linea retta, ma vaga in obliquo come un viaggio tra fughe e ritorni nel quale l’intenzione di raggiungere un obiettivo è soggetto a ininterrotte divagazioni; un tragitto randagio nel quale gli oggetti diventano antichi paesi da attraversare e da sognare, e le distanze di qualche metro sono di migliaia e migliaia di chilometri. Ogni tanto si ferma d’improvviso come se si fosse imbattuto in una visione incantevole o accarezza una fotografia come se avesse incontrato un amico perduto.

Poi scompare dalla mia vista, esce dalla camera magari per aprire la porta al ragazzo che gli porta ogni giorno la spesa o un pasto pronto. Quando ricompare, ha l’aria trepidante di chi riprenda un filo a malincuore interrotto. E riscopre nuove le vecchie cose.

Adesso buona parte del mio tempo lo trascorro con lui.

Non credo che abbia consapevolezza di quanto accada nel mondo esterno, del dramma che l’umanità stia vivendo e, se ce l’ha, ciò non ha alcuna influenza sui suoi pensieri ed il suo comportamento. Questo fatale distacco indica una prospettiva lontana, che affronta la gioia e il dolore con lo stesso appassionato silenzio nei giorni della buona come della cattiva sorte. E mi accorgo che, alla fine, c’è solo una trascurabile distanza tra le folle di New York e la piazza metafisica di San Pietro. Domani, forse, questo enigmatico flâneur aprirà la porta di casa per portare a spasso la sua cella da monaco lungo le strade deserte di Palermo.

 

(“tratto da I racconti del balcone – Diario della quarantena in Sicilia, supplemento de la Repubblica del 25 luglio 2020”)

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