INCERTI DEL PAESAGGIO*

 

Nella nota a congedo di Tre lune in attesa (Formebrevi Edizioni, Caltanissetta, 2018) Alfonso Lentini informa che «le micronarrazioni qui raccolte nascono in gran parte dalla mia collaborazione con il quotidiano di scritture online Il Cucchiaio nell’Orecchio», sede che gli ha dato il destro di «ritornare a praticare un esercizio quasi giornaliero di scrittura assolutamente aperta e irregolare». È segno dei tempi che un testimone cartaceo, per quanto (o proprio perché) programmaticamente ‘minimo’, vanti la ‘levatrice’ di un blog. L’insolito ‘rimbalzo’ non può che rallegrare, segnalando ad un tempo che i nuovi spazi virtuali si dispongono a sostituire, come strumento di selezione e scoperta, le gloriose Riviste.

Il libretto è costituito da 63 filiformi narrazioni che verrebbe da definire, aggiornando un celebre titolo manganelliano, ‘Improvvisi per tastiera’, anche se poi il ‘provvisorio’ riesce in qualche modo a far corpo, a suggerire un organismo a suo modo coerente, la cui targa potrebbe essere l’aforisma di Sotto il tavolo: «Le cose non sono mai come sembrano». Fin dalle prime battute, che registrano la dipartita del Mondo Reale e della «sua sozza coda di capra», siamo infatti immessi in un territorio elusivo di oggetti ‘mutanti’ e di infidi confini: un universo instabile («a ceaseless Spectacle of Transition», direbbe Thomas Pinchon) che biffa le nostre facili certezze, le verità comunitarie, invitando a panorami ulteriori.

La prima vittima di questo smantellamento è non a caso la Montagna – perfetto simbolo del concreto, del solido, del duraturo –, la cui presenza si estende dal citato ‘pezzo’ inaugurale, posto «in alta montagna», fino alla fiaba conclusiva, messa in moto dalla scomparsa del massiccio dello Schiara: ultimo di una filza di toponimi chiamati a costituire una mappa, se non completa, ben rappresentativa dell’altipiano dolomitico (vi figurano infatti i monti Antelao, Cristallo, Pelmo, Civetta, Dolada, Vajont, Tofana di Rozes, Sorapis, Lagazuoi, la val Pusteria, la val Visdende, Calalzo di Cadore).

Non sono, naturalmente, lemmi da Touring Club, ma vieti Nomi, segni del mondo che si vuol dinamitare (come mostra la ‘pornografica’ trouvaille di un Monte Vulva, collocato nella «zona più erogena delle Dolomiti», dove l’enrosadira «si infoca farnetica ruggisce facendosi quasi pavonazzo e le rocce su in alto finiscono per somigliare a tante guance di donna felicemente in preda a travolgenti orgasmi»), e che è demolito alla lettera nei racconti che inscenano la sparizione di questi giganti: da Pianura assolata («Stanno portando via le montagne»), a Migrazione (con l’Antelao tagliato a dadini e ‘rimontato’ nel deserto marocchino), a Tre lune in attesa (dove si apprende che il Pelmo è stato «portato via in fretta e furia stanotte da ignoti»), a Un nerume (che mette in scena l’incendio integrale del Civetta), a Idea e Idea (che procede fra crolli di rupi e ghiacciai), a L’uomo e la montagna (su un efferato ‘monticidio’).

Oltre che a questo funereo gioco a scomparsa (in cui si potrebbe anche leggere una idiosincrasia dell’autore, siciliano e rivierasco), le montagne si prestano, come mansuete assistenti di un imbonitore del Varietà, a varie metamorfosi: da quelle che agli Antipodi appaiono «a testa in giù e gambe all’aria, tozze come equilibristi di scarso talento», a quella che emana un «bisbiglio fangoso, un ronzare piccino»; per non dire della «pietrosa e pietosa», anche se «smemorata», che assiste l’ascesa dei viandanti, o della stratosferica terrazza da cui si possono addirittura ammirare quattro mari (l’Oceano, il Mare Greco, il Mare Artico, il Mare Mediterraneo) compreso il loro passato, o della filosofante Sorapis, tratta a snocciolare il credo dell’eleatico: «l’essere è ingenerato e imperituro, è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine» (colpisce, in tanto burlesco trasformismo, Vajont, chinato sulle vittime eterne del disastro, «tutti quei corpi in bianco e nero a intasare il fiume galleggiando a faccia in giù»).

Il quadro della geografia surrettizia si completa con l’invenzione di Caltafaraci (presente in Invece è là e in Uova d’oro), adibita a un recupero quasi nostalgico di memorie isolane marezzate da perturbanti cammei dialettali («aggiallavano», «canazzi arraggiati», «scursuna», «virmiceddri», «babbaluci»), e con la locationlondinese di La Sura della luce (la magia di un ulivo conservato in un armadio in cima allo Shard) e La scimmia con la barba, dove la strana bestiola colta «alla fermata di Canary Wharf della Jubilee Line» gareggia con la sorniona sapienza di Sorapis, producendo un’arguta variante del proverbio eracliteo: «Non puoi immergerti due volte nello stesso passato».

Altrettanto pretestuosi sono gli ‘annonimi’, ossia i nomi di donna coniati a partire dalla matrice Anna (se ne trovano 13: Annaelena, Annacarla, Annademocrita, Annaclaudia, Annagiulia, Annaluna, Annalidia, Annajessica, Annadeborah, Annagianna, Annaluigia, Annabertha, Annasidonia), flatus vocis che ricordano le griffes di certi pittori novecenteschi (ad esempio le stelline di Klee) e che ugualmente funzionano da ‘connettivi esterni’ di un florilegio, la cui compattezza si affida in estrema istanza a quello che l’autore nel suo libro d’esordio definiva un «punto di vista periferico e nello stesso tempo infantile», sempre volto alle «illegali vene» che danno il titolo a una sua recente plaquette poetica: un punto di vista che è certo contiguo alle vedute dell’avanguardia anni sessanta-settanta (da cui Lentini ha preso abbrivio, collaborando alle riviste palermitane «Fasis» e «Per Approssimazione»), ma che conserva un tratto originale, declinato sia nel campo della pittura e delle contaminazioni verbo-visuali, che nell’ambito della scrittura vera e propria.

Uno sguardo da artista, da fanciullo irriverente e assorto, da sapienziale giamburrasca che nello scompiglio avvista schegge di un ordine alternativo, barlumi di conoscenze inattese, grani di superiore saggezza, per quanto aliena e non garantita. Uno sguardo curioso che si spinge su un itinerario non precostituito, ne accetta l’alea, ignora dove andrà a posarsi. Parole accese, muove ad esempio dalla visione di un’aquila che infila il suo becco nella gola di un individuo, per passare senz’altro a una realizzazione della metafora, perché l’atto dà luogo a un vero battibecco tra la voce dell’uccello che si è insediata nell’organo vocale dell’uomo e la voce dell’uomo che cercando dapprima di esprimersi attraverso il suo cavo orale è indotto ad aprirsi altre vie in diverse parti del corpo (le mani, i piedi, il petto, il dorso, le ascelle, il naso, la nuca, le ginocchia, il prepuzio) fino all’ano che emette la memorabile sentenza: «Questa è la democrazia, ragazzi!».

Una mossa analoga ispira La macchina (che prospetta un congegno, completo di istruzioni, «per far sorgere e tramontare il sole»), La costruzione del suono (che prevede il suo bravo «cantiere circondato da alte palizzate»), La fabbrica di buio (che illustra una geniale intuizione dell’imprenditore Stelo Odoacre), mentre Nella nuova casa presenta un’abitazione vissuta come organismo di carne, vasta donna da cui farsi accogliere (un motivo già adottato nel racconto La casa irrisolta e nel romanzo epistolare Luminosa signora).

Percorsi che si diramano nell’atto stesso di scrivere, come in Sgocciolature, quando le parole viaggiano lungo un «sistema di tubazioni, canali, fognature, condotte sotterranee», formando pozzanghere sui recipienti d’arrivo, da cui le più forti evadono per rigermogliare a primavera in una zolla; o in Il posto delle idee, dove un ghirigoro a matita si avventura a esplorare un appartamento fino allo scarico del lavandino che gli sarà fatale; o in Un Wirtw?, fantoccio foggiato dalla «tastiera ruvida», da «ciò che stai scrivendo».

Si potrebbe continuare, ma è chiaro che questo circo delle meraviglie, questa Boîte à Surprises aperta a un campionario di possimpossibilità, sottende un dramma gnoseologico: tocca il nostro smarrimento dinanzi a un paesaggio che si fa sempre più enigmatico quanto più appare interamente squadernato, totalmente disponibile, come certifica in Lacrime azzurre il «funerale delle Cose Esotiche»: «Ormai tutto è contemporaneamente dappertutto, come si conviene a un mondo dalle unghie civili. Da molto tempo niente si può più considerare maivisto o irraggiungibile».

Insomma, il patafisico Luna Park di inversioni e inganni ottici (dove il cielo può essere una «mezzapalla di carta velina bucherellata» e l’inferno dantesco una «montagna rovesciata»), la congerie di strampalate enumerazioni, di incubi surrealisti e di allegre maconderie, giunge a sfiorare la viva carne del presente. Penso a Lavoro interinale, con il disoccupato e «liquido» Lollo assunto come «cacciatore di cercatori», al clima di paura innescato in Cucciolo da un trolley che ospita «solo» un piccolo rinoceronte, al macabro ribaltamento prospettico di Poveri noi, con l’invidia sociale degli esclusi dal campo di sterminio proiettata sul «costume a righe che sembra un pigiama e che tutti noi vorremmo almeno una volta indossare».

Giusto e santo, allora, che il sipario di questo divertissement pronto a mutarsi in ‘libello di inquietudini’, si chiuda sulla speranza di futuro, quasi una preghiera, appesa allo stupore di una bambina: «Tu avevi solo tre anni e alla vista di quello sbattere d’ali, dimenticando fulmini e montagna, battevi le manine per la gioia».

*da Dialoghi Mediterranei, n. 35, gennaio 2019 http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/

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