Su “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino

Fin quando si tratta di parlare male di Andreotti non ci sono problemi, siamo tutti d’accordo sull’orrore, la gobba, le trame, su quanto quello, lo statista democristiano, fosse assai brutto, con i topi in cantina a rosicchiare il cadavere in camicia di popeline del povero Aldo Moro, i problemi cominciano invece quando occorre mostrare quant’è misera e piccolo borghese Roma, una città dove è impossibile essere artisti, dove l’eventuale modello cui è ispirato il personaggio di Servillo altro non è che un trombone con foulard, Dudù La Capria, dove il massimo lirismo elegiaco municipale consentito è semmai Renato Zero vestito di bianco con la colomba che gli caca sulla bombetta del medesimo colore. Ecco perchè “La grande bellezza” non c’è, non esiste rispetto a se stesso, così come non c’era “Habemus Papam” di Nanni Moretti, un film non meno fallito per timidezza nei confronti della tiara, della pantofola papale, dell’anello del pescatore di Lavinio Padiglione. Ma io dico, se hai soggezione verso il potere mettiti a fare il chitarrista classico, no? Se non l’hai capito sono affari tuoi.

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